Hai ku?

17 ottobre 2020

Nel cambiamento

mutevoli le stanze,

flemmatici i ruoli,

da conquistare la stima,

pesca e mela l’affetto.

Go-Go Tales

14 ottobre 2020

Faceva la lap dance avvinghiata al palo del suo ruolo di mamma, turgidi i muscoli, turgida e rigida la psiche. Quando era in alto scuoteva la testa, per ogni capello appena fatto una parola santa; sopra tutti, kajal sulle palpebre, giudizi come telegiornali, chicchi di riso generosamente sparsi sulle folle immaginate dei pochi astanti in carne ed ossa: un ruolo, una Virtù.

Però prova a rimanere impassato crème caramel fuori dal vergato vasetto di plastica e poi dimmi se riesci a tenerti salda e dura così, senza che il caramello ti sia di peso o se per caso l’aria intorno non ti sia di impiccio per conservare quella forma e quella gestualità forgiate, alla base di quel palo che ti fa da totem.


Potrei rifurgiarmi anch’io in una visione cartesiana del mondo, è facile, basta distinguere le emozioni fondamentali dalle altre e poi decidere su base aritmetica.
Per esempio:
gioia+desiderio=speranza
teniamo la gioia, eliminiamo il desiderio, la speranza si nebulizza in un riporto per altre operazioni, che so, una divisione acerba o una moltiplicazione per beoni cattolici.
Trasformare il modo di vivere in una palla grigia di intenzionalità estremista islamica senza darlo a vedere.
Una parte di me vulnerabile, distratta e sottratta da quel che è meglio e giusto e che abbia un briciolo di senso vorrebbe piangere lacrime di piombo da far cascare in testa ai ciechi e ai sordi, quelli con piene le tasche dei pantaloni di ammennicoli e chiavi e spiccioli e il cellulare. Una pienezza orba e sorda. Mi ricordo di me fino a qualche anno fa: incazzata isterica urlante eppure muta ovvero rassegnata eppur parlante, non sono brava a fare le cose per due, a dare la corda a me e all’altro, a trainare il carro e a fare il bue, il cocchiere e il passeggero. Non sono brava e non voglio, perché adesso intravedo con maggiore lucidità la trappola che ti addenta la caviglia e ti tiene attaccata agli sbagli reiterati. Errori di gioventù, miracoli soppressi, feti implumi che hai paura a far nascere, retaggi e nessuno che ti abbia mai detto una volta: “Vai bene anche così” invece che “Puoi fare di più”.
Quel “di più” che non sai cos’è, né quant’è, quando ci si arriva. In chili? e come? in miglia o in potere del denaro, in potere del potere e quale potere? Quel “di più” buttato così come un secchio in un pozzo che non conosci è il piombo tra il pomo d’Adamo che non hai e l’ombelico che ti esplode.
Quando finalmente scopri cos’è, sputi via la pappa preconfezionata da consumarsi preferibilmente entro un termine congruo per il passaggio alla vita adulta. Però ti serve un dizionario gestalt per imparare a gestire tutto quel mondo, sei Alice e il Cappellaio matto, il gatto lo vedi ridere al buio o nell’intermittenza delle luci, capire quali sono fulminate; ti offri il tè e lo sorseggi; ti va di traverso? ti dai un colpetto sulla spalla per ripigliarti. Ti bruciano gli occhi, non metti a fuoco? Vai di nuovo dall’oculista. Esci da lì e ti accorgi di non averle posto una domanda fondamentale. E mò ti arrangi, presa al lazo dall’ennesimo caZo di problem solving. Finalmente ti si illumina il chip, ti rendi conto che – a parte il confronto a mille miglia di distanza con l’amico storico, olimpionico nella gara dei fuori pentagramma, subentrato quando i danni dell’infanzia erano ormai compiuti ma non ancora ben computati – nessuno ti ha insegnato a prenderti cura di te o ti ha dato un’importanza incondizionata e disinteressata che non seguisse solo l’impronta di un’ansia che fagocitava qualsiasi parvenza e retrogusto affettivo o che non comportasse una qualche delega a.
È questa l’impronta. Quindi sarà una passeggiata zebrata, lo so. Un percorso sulle strisce pedonali, guarda a destra, guarda a sinistra, i parapiglia col semaforo, ora il rosso, poi il verde, il giallo che dura troppo poco, biciclette che ti sibilano di fianco o tu in sella; alcune strade tranquille, altre troppo larghe per farle tutte d’un colpo senza rischiare di trasformarti in una striscia pure tu, fantasiose nuances, gente che distrattamente finisce per camminarti sopra. Se ci provano, giuro che faccio la schiuma.

* Il titolo lo devo a John Keats

tempo-thumb


Ci vuole tempo per uno sanbajon vellutato, per una maionese che non impazzisca, per la panna montata bene o una crema di fave che faccia del sesso palatiale completo con le cicorie.
Ci vuole tempo per trovare un lavoro decente o ottenere un trasferimento se non hai le spalle abbastanza coperte da raccomandazioni sottocoperta; ci vuole tempo per passarci in mezzo e capire come non rimanere schiacciati.
Ci vuole tempo per imparare il bene e forse ancora di più per imparare il male.
I pacchetti di tempo non riportano data di scadenza sui coperchi che non hanno e capita di vivere in bolle di latenza, mentre ci si concede ancora tempo, perché ci vuole tempo: e quel tempo è già finito.
Ma mentre si aspetta lo scorrere lineare delle lancette mentali fino a infinito, è meglio far qualcosa, escogitare un modo per trasformare i detriti in una comprensione accesa di notte ed anche di giorno, come le luci delle motociclette.
Lo strenuo rifiuto uccide tutto. Tranne il rifiuto e la comprensione della fine di tutto.
Ci vuole tempo per sentire e capire i suggerimenti dei sogni, ma il tempo dei sogni non finisce mai.
E mai significa mai, sempre.

Sazietà semantica

1 giugno 2014


Quel tempo in cui c’erano nastri da avvolgere e da smagnetizzare torna sulle note, il dito su un tasto play dal clic secco come questa mattina di cirri di peli e polvere spazzati via. Il mood, i modi e i tempi delle pulizie seguono la successione delle cassette, pallidi come il sole, brevi movimenti delle anche e cortometraggi canori, due passi di danza con Velvet per convincerla a farsi tagliare le unghie e piccole cisti di immaginazione dell’anima:

Vieni a me con il tuo anello di plastica,
con la collana di perle finte,
con i tuoi cori,
i palloncini colorati che non puzzano di plastica stantia;
vieni a me con le tue incertezze,
i difetti,
le risate,
le dita colorate,
gli sforzi,
la leggerezza,
il mare dentro e i controversi suoi abissi
Ed io
dopo essermi riempito di te
e dato a ciò il nome vergato di amore con caratteri scritti da sinistra,
scarno da me stesso
ti lascerò sola
e rimarrò solo.

Nunca o mas?

6 gennaio 2014

L’unica cosa che mi disturba parecchio dell’essere economicamente ristretta come un dado glutammato è sottostare a una connessione internet con dispensione di byte che manco il primordiale modem a 54cappa. Lo odio, lo odio, lo odio. Per il resto, non mi manca nulla, non ho bisogno di niente e se sono depressa i soldi non c’entrano.
Breszny esorta le Bilance a scrivere un libro. Ed io medito di comprare una bilancia pesapersone colorata da infilare sotto il mobile posto sotto il lavello del bagno e salirci su di tanto in tanto, così, per decidere se calare di ottocento, mille grammi, milleecinque, duemila. Non ne ho mai avuta una mia, l’ho quasi sempre trovata nelle case che ho abitato in dispersione poco scenica come le muse di Capitan Harlock. Essere etereo, sebbene rompicoglioni. Ci sono, ma con basso peso specifico. Posso essere fastidiosa, ma non reco disturbo. Ordinata come una formica, inconcludente come una cicala. Soffoco eppure respiro.
Mio padre, in fondo, non ha fatto altro che sedurmi e abbandonarmi. Non ha perso tempo: mi ha dato circa cinque o sei anni e poi non andavo già più bene. Peccato che dei primi tre non ricordi granché. Me ne avanzano altri tre: un po’ pochini per vivere sereni. Comunque continuo ad odiare di più la connessione lenta dell’hotspot, più di lui. Perché un certo tipo di odio matura e diventa una specie di merda secca, puoi usarla come concime o lasciarla lì ché tanto non inquina. Forse ti diranno che no, che poi poi poi con la morte (la sua) sono cazzi. Non crederci a prescindere. Pensaci. Valuta. Considera anche che potresti pure crepare prima tu, chennesai. Ci sono pietre come highlander e highlander come pietre e sassolini nelle scarpe. Ecco, tieni pure qualche sassolino nelle scarpe dell’anima e prova a massaggiartici i piedi.
E quindi gli uomini. Gli uomini non ti sorprendono mai, mi dico. E poi mi rispondo: certo, li scegli tu e li scegli in modo che non ci siano sorprese tra i quadrati avorio ed ebano di cui conosci già le mosse: insomma, è quello che si chiama un campione statistico poco rappresentativo. Tuttavia. Tuttavia devo riconoscermi un nucleo di ingeuità che fa un po’ tenerezza, ha un’età disallineata con quella anagrafica, non sfugge ai dettagli della carta di identità che mi dà spessore in questo mondo, in questa strada, in ufficio: è l’antiologramma a seguito del quale tocca pure pagare le tasse (un fottio, nella fattispecie).
E quindi gli uomini: quando dò loro fiducia non ci credono, la rivendicano e finiscono per tradire la mia. Lo schema si ripete. E’ sempre la stessa onda che si rifrange e più il tempo passa più mi risveglio esausta sulla riva. Ma le impronte che mi ritrovo ad osservare sulla sabbia umida cambiano. Il sale è sempre più salato. Il tepore del sole sempre più amato. Le vibrisse di Velvet su per il naso sono il nuovo sudoku e Smilla continua a mancarmi.
Sono andata a vedere capitan Harlock perché ne sono sinceramente innamorata, adesso lo so per certo. Veh. E’ evidente che se continuo a preferire i manga al flesh and blood non ne verrò fuori. Ma il punto è che al momento non ho altro, e quindi non vedo perché dovrei privarmene. D’altronde ne faccio un uso molto saltuario, né mi sembra la cosa rientri tra i peccati capitali, persino il papa farebbe spallucce e passerebbe senz’altro ad un altro argomento.
Capitan Harlock di Shinji Aramaki -locandina

Ezra mi ricorda molto mio fratello: fategli i capelli meno sparati in testa (vale a dire meno glam), gli occhi castano chiaro (e i capelli pure) ed è praticamente uguale. Non è in sedia a rotelle high tech perché deve aver bevuto roba magica dal santo graal quando ancora era in placenta: se i mass media rendessero pubbliche le sue avventure da redivivo probabilmente comincerebbero a fare la fila per chiedergli miracoli. Però comincio a sospettare che mi odi all’incirca nello stesso modo – sia pure per motivi molto più oscuri e frastagliati -, ma non so quanto sia pronto ad ammetterlo con la stessa franchezza e a comportarsi di conseguenza. Di mio ho frapposto chilometri di distanza ed anni luce di tristezza (Amen) e poi ho ricominciato a far finta di niente, perchè a volte così è se vi pare.
Insomma, che dirvi di Capitan Harlock.
Fico è fico e non ci sono cazzi (tutto molto platonico: è uno dei limiti dei cartoon d’infanzia della mia generazione, sui nuovi non sono aggiornata)
Le donne sono solo tre – anzi quattro, ma una non la si vede mai, se non attraverso un fiore -, ma buone. Sottili come mantidi religiose, ma più che assassine esili Giovanne D’Arco. Gli uomini sono tantissimi, burocrati guerrieri seduti che sembrano antenati di Brunetta sovradimensionati. Gli eroi sono due: si passeranno il testimone, ma rimarranno entrambi in vita.
L’originale mi piaceva di più, ma non importa.
Ops, qualcosa di là scoppietta: se non è la rivoluzione dev’essere l’uovo sovraccotto. Scusatemi…

Constantin Brancusi


Ho fatto gli origami con le sinapsi per tutta la notte, urlato Bastardi!, vagliato il movimento sinuoso del serpente: ogni sonaglio un senso di colpa; pianto la paura che nonfratello morisse prima del giorno e pianto la rabbia per un’esclusione invisibile, abbracciato il cuscino e dormito con la mia statuina di Lakshmi: i piedi alla testiera del letto, il volto verso le piccole luci dei buchi della serranda; non amo le derive new age, ma non credo nel caso così ho ricucito le visioni, le impressioni, il sogno per cercare la trama e non disfarla e poi deciso di togliere la vite dai cardini di quel portone gigante perché il grosso albero si schiantasse definitivamente su quella vecchia malmessa ferraglia rossa a quattro ruote e poi cercato padri nuovi da guardare solo da lontano per trarne un incoraggiamento inconsueto, desueto, libero e fuori dagli schemi. Ho deciso che può succedere che la famiglia sia solo un’idea che fa male e non è necessario perpetrarla e usarla come cappio per soffocare se stessi; che i legami sono un’alchimia e che non voglio rinunciare alle magie dell’autenticità per adattarmi a chi si compensa trasformando la vita in un’interminabile via crucis in cui vince chi soffre di più e l’altro è solo un contorno disegnato per tenere ben saldi i propri.
E adesso dovrò solo trattenermi dal precipitare.


E’ più grande il giornale o la bambina?

E' più grande il giornale o la bambina?
Quand’ero piccola amavo guardare le figure con aria compunta dall’alto del seggiolone. E tutto sommato non sono cambiata poi così tanto. Quindi, ecco a voi i film che non vi ho detto, in un sunto immaginifico.

The we and the I di Michel Gondry - Locandina Quando anche solo il titolo è geniale e il resto non lo smentisce.

La parte degli angeli di Ken Loach - Locandina Storia dell’amicizia autentica in chiave di sol.

Vita di Pi di Ang Lee - Locandina  La Metafora col mantello dei supereroi.

La bottega dei suicidi didi Patrice Leconte - Locandina Più che cartoni, animati.

In Their Room- London di Travis MathewsPiù che animati, vivi.

Interior. Leather Bar. di James Franco, Travis Mathews - Locandina Storia di come le idee autentiche possono rendere fico un tipo che altrimenti sarebbe solo belloccio.

Facing Mirrors di Negar Azarbayjani - Locandina E di come dare caramelle alla censura in incarto politically correct senza spanne di ipocrisia.


Chissà se mia nonna vedeva le stesse cose che vedo io quando speculo il fondo della bottiglia di vetro infilandoci un occhiolino nel collo appena prima di berci… Berci?

RoMBO

8 gennaio 2013

Vertical thinking - William Kentridge


Boato silente tra Bologna e Roma, fruscio di vacanze inusuali, calma di bruco tranquillo che mette fuori la testa dal baco.
Immagini in strade, stanze d’hotel, treni, accostamenti di volti amici, bus, metro, metrò, colazioni di variegate scelte fruibili, gallerie d’arte e mostre, orari all’italiana, tortellini e bucatini all’amatriciana; meridionali emigrati in un Meridione meno meridionale ma mica. Il mocaccino ogni volta un po’ diverso che va bene lo stesso, qualunque sia l’infinitesimale differenza. Fori imperiali inaccessibili se non a spese di una deformazione cartoanimatesca del disegno dei propri contorni, un concertone che da lontano è inanimato e biondo, fuochi artificiali un po’ flosci sprizzano tra la gruviera del Colosseo mentre astanti ardimentosi si cimentano in conversazioni auliche sulle fantasmagoriche possibilità della fotocamera dell’iPhone. Cielo sempre terso e vento che spettina strani ciuffi d’erba sul corripista dello stradone Chissàquale romano, e quello è l’Altare della Patria e quell’altro il cupolone, incespico nell’ignoranza che mi caratterizza e nello sfottò dei due compagni di mini-viaggio poggiando lo sguardo a casaccio su tutto quanto l’iride mi offre in cambio, cercando corrispondenze sulla cartina. Stanze ampie della mente certe tracce dall’immediato futuro: Kentridge racconta, i corollari della storia passata si proiettano dispettosi nel presente; incontro ravvicinato dopo anni ventitré e sento appena il sapore come muschio della storia dei miei quindici anni; occhi che un po’ si sfuggono per l’impaccio lieve dei primi minuti e poi si riconoscono senza farsi troppe domande. L’augurio di un buon viaggio arriva inaspettato, ma in realtà no e di tutte le cose non chieste e non approfondite rimane l’impronta del dialogo in quella dimensione parallela e trasversale a cui l’egotismo non ha accesso.