Il richiamo della foresta

25 febbraio 2014


Il telefono suona sempre due volte in odore di disgrazia. E per una strana alchimia, non so a voi, ma a me succede sempre quando non sono in ufficio.
Ma non importa chi sei ed è irrilevante dove tu sia. Conta solo il legame di sangue che ti investe se tuo padre viene investito: non prima, non durante, solo immediatamente dopo. Priva del mio mantello da verbalizzante – pipistrello goffo – sono dall’altro lato: parte civile un po’ offesa senza difensore. Fisso dentro il piatto vuoto, scruto il riflesso nella ceramica liscia per capire che fare. Nella sfilata che la mente mi propone scarto ad uno ad uno i volti delle persone che mi sono più vicine la cui distanza è dilatata dai chilometri come un chewingum, ma lo stomaco non vuol parlare con nessuno, stavolta pare voglia fare tutto da solo, niente attaccapanni a cui appendere considerazioni sull’assurdo, sgomento per l’indecisione, ricerche sul sito Raynair. Sono preoccupata per me o per lui o per me perché preoccupata per lui? Cerco di misurare il mio livello di egoismo come se fossi a una pompa di benzina all’incontrario e di scuotermi dalle anestesie difensive probabilmente già innescate. Mi chiedo se avrebbe un senso partire e quale il vero senso del rimanere, chiusa nella mia botola di considerazioni aperte. La mia faccia è in vetrina, ma non si vede il cuore; penso con l’ombelico e rido con la pancia; imparo a sillabare con gli addominali e poi mi chiedo aiuto. Mi dico Quali che siano le tue paure, non aver paura. Al di là della vetrina il mondo continua, perché così è.

Nunca o mas?

6 gennaio 2014

L’unica cosa che mi disturba parecchio dell’essere economicamente ristretta come un dado glutammato è sottostare a una connessione internet con dispensione di byte che manco il primordiale modem a 54cappa. Lo odio, lo odio, lo odio. Per il resto, non mi manca nulla, non ho bisogno di niente e se sono depressa i soldi non c’entrano.
Breszny esorta le Bilance a scrivere un libro. Ed io medito di comprare una bilancia pesapersone colorata da infilare sotto il mobile posto sotto il lavello del bagno e salirci su di tanto in tanto, così, per decidere se calare di ottocento, mille grammi, milleecinque, duemila. Non ne ho mai avuta una mia, l’ho quasi sempre trovata nelle case che ho abitato in dispersione poco scenica come le muse di Capitan Harlock. Essere etereo, sebbene rompicoglioni. Ci sono, ma con basso peso specifico. Posso essere fastidiosa, ma non reco disturbo. Ordinata come una formica, inconcludente come una cicala. Soffoco eppure respiro.
Mio padre, in fondo, non ha fatto altro che sedurmi e abbandonarmi. Non ha perso tempo: mi ha dato circa cinque o sei anni e poi non andavo già più bene. Peccato che dei primi tre non ricordi granché. Me ne avanzano altri tre: un po’ pochini per vivere sereni. Comunque continuo ad odiare di più la connessione lenta dell’hotspot, più di lui. Perché un certo tipo di odio matura e diventa una specie di merda secca, puoi usarla come concime o lasciarla lì ché tanto non inquina. Forse ti diranno che no, che poi poi poi con la morte (la sua) sono cazzi. Non crederci a prescindere. Pensaci. Valuta. Considera anche che potresti pure crepare prima tu, chennesai. Ci sono pietre come highlander e highlander come pietre e sassolini nelle scarpe. Ecco, tieni pure qualche sassolino nelle scarpe dell’anima e prova a massaggiartici i piedi.
E quindi gli uomini. Gli uomini non ti sorprendono mai, mi dico. E poi mi rispondo: certo, li scegli tu e li scegli in modo che non ci siano sorprese tra i quadrati avorio ed ebano di cui conosci già le mosse: insomma, è quello che si chiama un campione statistico poco rappresentativo. Tuttavia. Tuttavia devo riconoscermi un nucleo di ingeuità che fa un po’ tenerezza, ha un’età disallineata con quella anagrafica, non sfugge ai dettagli della carta di identità che mi dà spessore in questo mondo, in questa strada, in ufficio: è l’antiologramma a seguito del quale tocca pure pagare le tasse (un fottio, nella fattispecie).
E quindi gli uomini: quando dò loro fiducia non ci credono, la rivendicano e finiscono per tradire la mia. Lo schema si ripete. E’ sempre la stessa onda che si rifrange e più il tempo passa più mi risveglio esausta sulla riva. Ma le impronte che mi ritrovo ad osservare sulla sabbia umida cambiano. Il sale è sempre più salato. Il tepore del sole sempre più amato. Le vibrisse di Velvet su per il naso sono il nuovo sudoku e Smilla continua a mancarmi.
Sono andata a vedere capitan Harlock perché ne sono sinceramente innamorata, adesso lo so per certo. Veh. E’ evidente che se continuo a preferire i manga al flesh and blood non ne verrò fuori. Ma il punto è che al momento non ho altro, e quindi non vedo perché dovrei privarmene. D’altronde ne faccio un uso molto saltuario, né mi sembra la cosa rientri tra i peccati capitali, persino il papa farebbe spallucce e passerebbe senz’altro ad un altro argomento.
Capitan Harlock di Shinji Aramaki -locandina

Ezra mi ricorda molto mio fratello: fategli i capelli meno sparati in testa (vale a dire meno glam), gli occhi castano chiaro (e i capelli pure) ed è praticamente uguale. Non è in sedia a rotelle high tech perché deve aver bevuto roba magica dal santo graal quando ancora era in placenta: se i mass media rendessero pubbliche le sue avventure da redivivo probabilmente comincerebbero a fare la fila per chiedergli miracoli. Però comincio a sospettare che mi odi all’incirca nello stesso modo – sia pure per motivi molto più oscuri e frastagliati -, ma non so quanto sia pronto ad ammetterlo con la stessa franchezza e a comportarsi di conseguenza. Di mio ho frapposto chilometri di distanza ed anni luce di tristezza (Amen) e poi ho ricominciato a far finta di niente, perchè a volte così è se vi pare.
Insomma, che dirvi di Capitan Harlock.
Fico è fico e non ci sono cazzi (tutto molto platonico: è uno dei limiti dei cartoon d’infanzia della mia generazione, sui nuovi non sono aggiornata)
Le donne sono solo tre – anzi quattro, ma una non la si vede mai, se non attraverso un fiore -, ma buone. Sottili come mantidi religiose, ma più che assassine esili Giovanne D’Arco. Gli uomini sono tantissimi, burocrati guerrieri seduti che sembrano antenati di Brunetta sovradimensionati. Gli eroi sono due: si passeranno il testimone, ma rimarranno entrambi in vita.
L’originale mi piaceva di più, ma non importa.
Ops, qualcosa di là scoppietta: se non è la rivoluzione dev’essere l’uovo sovraccotto. Scusatemi…

Laccoglienza

11 dicembre 2013

Quarant’anni e uno suonati io e settantacinque sempre più acciaccati lei, ma.
– Cosa vuoi, azzia?
Ci penso, due per due col resto di uno, pinna di pesce, cuore di mozzarella, carota con l’aglio…
– La pasta al forno!

Al forno pasta

Perché così non la troverei in nessun altro luogo al mondo.

Constantin Brancusi


Ho fatto gli origami con le sinapsi per tutta la notte, urlato Bastardi!, vagliato il movimento sinuoso del serpente: ogni sonaglio un senso di colpa; pianto la paura che nonfratello morisse prima del giorno e pianto la rabbia per un’esclusione invisibile, abbracciato il cuscino e dormito con la mia statuina di Lakshmi: i piedi alla testiera del letto, il volto verso le piccole luci dei buchi della serranda; non amo le derive new age, ma non credo nel caso così ho ricucito le visioni, le impressioni, il sogno per cercare la trama e non disfarla e poi deciso di togliere la vite dai cardini di quel portone gigante perché il grosso albero si schiantasse definitivamente su quella vecchia malmessa ferraglia rossa a quattro ruote e poi cercato padri nuovi da guardare solo da lontano per trarne un incoraggiamento inconsueto, desueto, libero e fuori dagli schemi. Ho deciso che può succedere che la famiglia sia solo un’idea che fa male e non è necessario perpetrarla e usarla come cappio per soffocare se stessi; che i legami sono un’alchimia e che non voglio rinunciare alle magie dell’autenticità per adattarmi a chi si compensa trasformando la vita in un’interminabile via crucis in cui vince chi soffre di più e l’altro è solo un contorno disegnato per tenere ben saldi i propri.
E adesso dovrò solo trattenermi dal precipitare.

A ribbon of black


Chiacchierare con le piccole ipocrisie raggiungendo un accordo franco, ripulirsi scrostandosi come una cozza.
Triste e necessaria sfida la metabolizzazione dei rifiuti, difficilmente codificabili: c’è sempre una differenza sostanziale tra rassegnazione e accettazione.
Persone-oggetti non responsivi, tristezza a grappoli, ci faccio il vino.
Fratello non saluta, padre non ti cerca (e tu neanche, e tu neanche).
Madre si dice non è mai troppo tardi, ma mai tutto è detto per davvero. Occhiali a raggi ics per la visione notturna che non vedrai sui loro occhi, getti via una spugna gigante; strana pastina e io troppo formaggino.
Poche ossicina sul bordo del piatto, ossitocina.
Sommosse fluttuanti: l’idea che la riconciliazione esista e sia una possibilità è gravidanza isterica finita in aborto; i tentativi mai fatti e l’amarezza acerba di quelli falliti incappata nella rete di detriti da ingoiare.
Cerchi negli uomini la mamma? Eterosessualità deficiente, omosessualità insufficiente.
Nell’abaco dei sentimenti non riesco mai a fare i conti con tutte le palline. Certo, criceti che volano pare non esistano, ma sai mai.

Fratelli

20 marzo 2012


Ammaliati da un insano perfezionismo in vortici inconsulti, congelati i pensieri immobili in movimento, schiocchi, applausi e sassolini rotolano, si fermano.
Ignari attraversano la strada, occhi chiusi, ruote grandi, marciapiedi inciampati, fuoco. Fiamme.
Si ritrovarono ad un crocicchio che qualsiasi strada andava bene, si guardarono e sorrisero.
Si abbracciarono senza dirselo e continuarono nei loro percorsi così diversi e così simili senza mai perdersi di vista.

Fellini a colori

22 Maggio 2011


Erano le 19:42 di un giorno di un paio di settimane fa o forse più quando mi sono fiondata sulla banana in cucina, trascinandomi alla svelta, bramosa di potassio e zuccheri in cui affogare il senso di malessere. Cinque minuti prima avevo sperimentato la morte, un freddo che piano piano irradiava dagli organi interni e non dava i brividi, ma era freddo, tutto freddo lì dentro. E ho capito com’è sentire la vita che va via. Non è piacevole: è per questo che sentirsi stringere la mano da qualcuno può avere il suo perché quando senti tutti quegli spifferi di ghiaccio. O no. Non lo so.
Non avevo alternative, lanciare un SOS al mondo fuori avrebbe significato dare forma e credito a quello stato e prolungarlo. Nessuno a cui telefonare che avrebbe potuto esser lì e senza un carico di preoccupazione, troppo per quel divano così piccolo. “Non sto bene, non posso venire al cinema”, era una soluzione che da qualche parte produceva una stonatura sorda.
Ha funzionato la banana, o il film… o’ miracol! Di fronte alla specchio del bagno ritrovai la mia solita faccia da pirla da truccare almeno un po’ prima di uscire.
Poi all’uscita dalla sala mi toccò imbattermi in un genitore che non ho più e a lui in una figlia che non conosce. Gli sguardi non si sono incontrati, gli ex parenti non si sono salutati, non serviva, non serve. Come il rancore.
E’ come ricevere un pugno nello stomaco ma capire che andare al tappeto è solo un’idea, puoi sempre rialzarti prima che suoni il gong.

I baci mai dati sono sempre troppi. Anche se ne dai tanti e poi interrompi all’improvviso.
Ma è un errore difficile da sopportare non se lo subisci, ma se ne sei l’artefice.

E il film mi è piaciuto.

ZooBlog, dal bruco al drago.


Sono giorni che ci penso.
Sai quelle cose che ti tornano in mente così? Ecco, quelle.
Ero giovane, bianca più di così e molle. Mi spegnevo con intermittenze sempre più lunghe, mi osservavo e non sapevo bene quello che vedevo. Come adesso, praticamente, ma peggio.
Credo di non aver mai smesso di cercare il clic, da sveglia o durante il sonno. E anche allora era sempre su percorsi un po’ sghembi e insoliti che trovavo spunti animati e non.
Una volta andai a parlare con un drago, mi ci portò mia madre il cui compito istituzionale pare sia quello di affrontare le emergenze sanitarie (niii-no! nii-no!) e – questo in passato, ora non più – trovare qualcuno a cui affidarmi, tipo patata bollente.
Devo riconoscerle che mi ha permesso di incontrare persone che per me si sono rivelate importanti e forse è una forma di egoismo geloso ed egocentrismo orgoglioso, la mia, non volerlo ammettere in maniera più intima e aperta: come dire, Però loro sono miei!
Il drago mi disse: “Devi decidere: morire o vivere. Non puoi stare nel mezzo.”
Sembrava una cosa crudele da dire a una fanciulla giovane, bianca più di così e molle. Sembrava un colpo inferto a dispetto di tutto: delle opportunità, delle convenzioni, delle convinzioni.
Ma io lo sapevo che aveva ragione lui, anche se faceva male decidere di diventare grandi e avere il coraggio di tirarsi fuori dalla caverna magica.
Non ho ancora imparato, però. Non del tutto. Non si impara mai del tutto. Ma morire è molto meno soddisfacente e molto più noioso che vivere. A parte il fatto che c’è un tempo per ogni cosa e, per quanto ne sappiamo, la morte non ce la leva nessuno comunque.

Era meglio il bruco, eh?

Donna settantenne e nipote circa trentanovenne si scolano un’intera bottiglia di spumante di serie B in due per festeggiare non si sa bene cosa.
Zia manda giù tutto d’un fiato, al bando il Voltaren per il “dolore ai reni”, nonostante lo spumante sia a temperatura ambiente e l’ambiente caldo. “Non lo abbiamo messo in frigo!”
Le due discutono su chi vinca la palma benedetta della più stordita e ammettono che se la temperatura del liquido dorato dalle bollicine un po’ loffie fosse stata ideale, probabilmente lo avrebbero ciucciato con una cannuccia.
La nipote termina l’incontro con considerazioni scientifiche sulle eliche del DNA e i loro riverberi riflessi da occhi di colore simile.

Ho chiesto a mia madre: “Puoi accompagnarmi in aeroporto venerdì ché Mr. Cì non può?” E lei: “Mmmh, sì, va bene… a che ora?” E io: “Bah, il gate chiude alle sette e mezza, credo… vieni verso le sei e mezza, sette meno un quarto… Poi comunque ci guardo meglio.” E lei: “Va bene, allora poi ci sentiamo:”
Così, ieri ci siamo sentite.
“Allora, a che ora devo passare?”
Trasmestio nella sacca della valigia, foglio A4 Ryanair, telefono incastrato tra spalla e mento: “Dai, passa alle sei e mezza.”
“Va bene, ciao.”
“Ciao.”
Stamattina alle 6:30, il citofono.
Il citofono alle sei e mezza della mattina? Saranno gli operai.
Non erano gli operai: era mia madre che è venuta a prendermi dodici ora prima.