Contiene sabbia di Maiorca (polvere alla polvere e sabbia alla sabbia).
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Quel che rimane, insieme ad altro ancora.

Dì scorsi

17 marzo 2014


Tre film, parecchi volti, alcuni nuovi altri no, corse in corridoî, telefonate, improperi fluenti, interrotti, ingoiati, riservati per il futuro, annullati, volture dello spirito, watt, decisioni, spappolamento d’endometrio, debolezze, debolezza, mostre e mostri, “è” aperte troppo chiuse, “ó” chiuse troppo aperte, ancora una firma per presa di possesso senza possedimenti, biglietti aerei, check in on line, sogni on air, cinguettii di uccelli che cantano l’esplosione di una stagione calda senza intermezzi.
Progetti per il futuro: allenarmi col giro fonetico su tacco 12.


Ci sono occhi brillanti, e fermi, e ironici in cui si sta così comodi –  come seduti su un prato, il cielo blu sopra e scherzare; come avvistare una spiaggia libera e accogliente invece che brulla e recintata – che vorresti il tempo si fermasse almeno un po’. Poi il tempo non si ferma e anzi diventa il quarto compagno nel tragitto fino alla stazione, fischia quando il treno sta per partire, strizza l’occhio anche lui quando stai per andare. Però, chissà com’è, ti senti addosso un sorriso da cartone animato e nei didentri come se avessi assaporato una pillola di bellezza, mentre il tempo, lui, ti siede accanto scorrendo sulle rotaie e poi in auto e poi su strade che ricordi appena, tra altri volti, si infila in un panino al volo, e va avanti a tempo di jazz.

Geografia primaria


Certo che per capire come arrivare laddove devi andare, avere cognizioni sulla corrispondenza biunivoca luogo-puntino.sulla.cartina.geografica ha la usa utilità se ci tieni davverodavvero ad arrivare. E di là in poi ti si apre una serie disparata di orizzonti itineranti più o meno plausibili, mica come le parallele che non s’intersecano mai.

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Il cervello ciocca, i circuiti saltano, gli orari ballano la rumba, il cuore batte il ritmo, il cervelletto scrive, qualcuno spia, la gente mormora, i vestiti animati coprono in sordina o facendo chiasso, vi ci infiliamo come nella cruna di un ago; crocco la ciotola, acquo la bacinella, spengo il gas già spento, schiocco la valigia, bacio il sacco a pelo, dindlo le chiavi, abbasso la saracinesca del pensiero (luci soffuse), mi accompagna l’ascensore, accelero il pedale, parcheggio le ruote, cammino nel riflesso verde dell’ombrello nelle pozzanghere, non sbaglio il binario, mi aspetta il treno giusto, riconosco il cielo, gli sbuffi del bianco stagliati nel celeste vivo, le fantasie di nuvole, mi perdo serena nell’incontro con il mare altrove, le profondità che mi attirano e quelle che mi spaventano, i picchi bianco-scuri che fanno il solletico al cielo e il bacio della sincronia con la stabilità, tento il sonno in questo frastuono buono.
La presbiopia è quella modificazione dello sguardo per cui per non avere una visione sfocata, le cose devi allontanarle da te: ci si arriva dopo un po’.
Faccio lo tsunami-anatroccolo, all’orizzonte grandi onde: lasciate andare spazzeranno via rami secchi del passato.
Quelle cose che non sapendo bene quale delle due fare tanto vale farle entrambe.
Ho freddato la mamma cyborg che con la sua sottile voce metallica cercava complicità abietta ed è rimasta senza voce da trasmettere da quell’altoparlante freddo come Hal.
Come disegnare una linea per terra e dire Fin qua ci sei tu e da qui in poi io e – come vedi – le due aree non si intersecano.


In questo grande spazio architettonico in sfumature di grigio chiaro a cielo aperto con tetto in vetro costellato di quadratini scuri acchiappasole, sembra di essere in un evoluto Paese europeo. Peccato per le zone ancora in cantiere che sembrano dimenticate, per i raccoglitori colorati e dove c’è scritto carta ci sono un carciofo e un piatto di plastica, dove c’è scritto plastica buste di carta, dove c’è scritto vetro c’è la qualunque; per il bagno destinato alle categorie protette (bebè e disabili) sul cui ingresso campeggia sgualcito e sghembo il foglio con la scritta GUASTO in pennarello nero dall’inchiostro puzzolente. Però nel salottino di Italo si sta da dio. Montezemolo, padre dei vizi. Vien voglia di scoprire il nuovo mondo in noi.


Scollata, cerco la magica universale del cauto distacco.
Chiudere gli occhi dentro, ricostruirmi transdifferenziata ogni volta
come una microscopica Turritopsis nutricula,
i tentacoli inzaccherati di nuove idee e meno ancestrali turbamenti
immortale gelatina di cellule vive che ci riprovano
si accartocciano e rinascono
e rinascono e si accartocciano
rinascono ancora.
Prima che una capsula Petri catturi i loro sogni ci vorranno plurisecolispaziali ai cubi infinitissimi
la cerniera fa clic
rotola rotola rotola
i lembi della giacca di pelle
scollati
ridono dai gancetti metallici che oscillano in libertà ad ogni passo
mentre penso alla magica universale del giusto distacco.

Turritopsis nutricula


Orde di affamati mangiatori del carboidratico sottile disco volante alla barese affollano le pizzerie il sabato sera, perché il sabato la pizza e la domenica il cinema, con brevi incursioni per panzerotti e hot dog in uno dei gabbiotti quattroruotati appostati solitamente negli angoli più squallidi del lungomare, drive in a cielo e mare aperto con cartoni, cartacce, cartupole, lattine e bottiglie di Peroncino in dialogo sconcio ai bordi dei marciapiedi o sui muretti in pietra e, se c’è maestrale, concerto di materiali inerti in rotolamento libero sull’asfalto a buche rappezzate male… no, scusate, ma-lis-si-mo.
Dopo aver evitato le folle inneggianti a pagamento nel teatro del burattinaio Silvio Bì impomatato a festa e aver rinnovato la scoperta di una infausta continuità tra settecento e ventunesimo secolo grazie al monologo di Eleonora de Fonseca alla Vallisa, i tempi erano maturi per l’ardua ricerca di luogo in cui rifocillarsi. Constatata la necessità di una migrazione verso nord, abbiamo raggiunto la meta mezz’ora prima di mezzanotte, fatto finta di credere che gli annunciati venti minuti scarsi di attesa fossero plausibili, sorriso, osservato gli avventori in entrata e in uscita, commentato sogghignando, sogghignato commentando, sorretto le palle nei momenti di défaillance.
Lo scenario descritto dovrebbe rendere Chicchessia (nome proprio di persona qualsiasi mica tanto) compiacente e comprensivo su un punto: che la mia figura di meeeerda è, tutto sommato, un po’ come una nota stonata dovuta a una corda di violino rotta per l’uso improprio ed eccessivo.
– Volete ordinare?
Sono prooonta:
– Per me una Céline.
(Perché mi guarda strano?)
– Non esiste la pizza Céline.
– ? Ma… E’ questa! (dito sul menu in corrispondenza della reietta misconosciuta)
– Colino, una Colino!
Inutile dire che la cameriera mi ha coglionato fino alla fine della serata, però ho capito una cosa: dev’essere per questo che Mr. Cì dice che ci ha perso tanto con la nostra separazione…
Son soddisfazioni.


L’attesa, qualsiasi, e il piacere di starci dentro crogiolandosi nella contemplazione traballante e tranquilla del cielo che ad ogni minuto che passa si colora di sfumature diverse e non è più solo il tempo che scorre, ma anche qualcos’altro.

Ecco, non mi sono annoiata tre ore in aeroporto, ma c’è da dire ancora che ho pure mangiato un muffin ai mirtilli inzuppato nel tè e fatto un sacco di pipì.

RoMBO

8 gennaio 2013

Vertical thinking - William Kentridge


Boato silente tra Bologna e Roma, fruscio di vacanze inusuali, calma di bruco tranquillo che mette fuori la testa dal baco.
Immagini in strade, stanze d’hotel, treni, accostamenti di volti amici, bus, metro, metrò, colazioni di variegate scelte fruibili, gallerie d’arte e mostre, orari all’italiana, tortellini e bucatini all’amatriciana; meridionali emigrati in un Meridione meno meridionale ma mica. Il mocaccino ogni volta un po’ diverso che va bene lo stesso, qualunque sia l’infinitesimale differenza. Fori imperiali inaccessibili se non a spese di una deformazione cartoanimatesca del disegno dei propri contorni, un concertone che da lontano è inanimato e biondo, fuochi artificiali un po’ flosci sprizzano tra la gruviera del Colosseo mentre astanti ardimentosi si cimentano in conversazioni auliche sulle fantasmagoriche possibilità della fotocamera dell’iPhone. Cielo sempre terso e vento che spettina strani ciuffi d’erba sul corripista dello stradone Chissàquale romano, e quello è l’Altare della Patria e quell’altro il cupolone, incespico nell’ignoranza che mi caratterizza e nello sfottò dei due compagni di mini-viaggio poggiando lo sguardo a casaccio su tutto quanto l’iride mi offre in cambio, cercando corrispondenze sulla cartina. Stanze ampie della mente certe tracce dall’immediato futuro: Kentridge racconta, i corollari della storia passata si proiettano dispettosi nel presente; incontro ravvicinato dopo anni ventitré e sento appena il sapore come muschio della storia dei miei quindici anni; occhi che un po’ si sfuggono per l’impaccio lieve dei primi minuti e poi si riconoscono senza farsi troppe domande. L’augurio di un buon viaggio arriva inaspettato, ma in realtà no e di tutte le cose non chieste e non approfondite rimane l’impronta del dialogo in quella dimensione parallela e trasversale a cui l’egotismo non ha accesso.